ESTUDIOS  
LA TUTELA PENALE DELL´AMBIENTE IN ITALIA. LIMITAZIONI LEGALI E NECESSITÁ MATERIALI

LA TUTELA PENAL EN ITALIA. LIMITACIONES LEGALES Y NECESIDADES MATERIALES

CRIMINAL PROTECCION OF THE ENVIRONMENT IN ITALY. LEGAL LIMITATIONS AND MATERIAL NECESSITIES

   
Giulio Adinolfi
Doctorando, Colaborador
Universidad Miguel Hernández Elche (España)




SUMMARY.

    In modern age, the environment strongly needs penal protection. The E.U. is aware of this, as a matter of fact, with the D.Q. n. 80/2003, has stated that the country members must establish an environmental penal system, which also provides for penal responsibility on part of associations. As a matter of fact, as the situation in Porto Marghera demonstrated, it is not possible to use the crimes against public or individual safety for the environmental protection. More generally, in environmental penal law the classic model should be abandoned: that is to say the model composed by crimes of behaviour and event. In this field reconstructing the causal link is impossible, and altering the causal paradigm should not be allowed either, in order to meet the needs of modernity. Yet, this was just done by the penal U.S. of the Supreme Court that, in the judgement on medical offence, through the instrument of alternative causal paths, succeed in recovering causal value even for the low statistic frequencies. Actually, it is impossible to exclude all the endless alternative causal paths. The Judge must not be interested in the circumstance that the facts did not develop differently from how it was described in the accusations, ecause such circumstance cannot be object of proof. And this because the lack of one, one hundred or one thousand defence proofs can never be an accusation proof.

    Key words: environment, Italian criminal law, Court of cassation.


RESUME.

     El presente trabajo trata de la responsabilidad penal en los delitos medio ambientales en Italia. La directiva del a Unión Europea, del 2003  ha establecido que todos los Estados miembros tendrán que reconocer, en estas situaciones, la responsabilidad penal del as personas jurídicas. El Tribunal Supremo italiano, basándose en el paradigma clásico de la imputación de la responsabilidad penal no logra encuadrar estos delitos más allá de la responsabilidad individual. Cuando emplea el instrumento de los delitos contra la incolumidad pública, aplica un sanción inferior respecto al daño efectivamente causado. Considerando que los delitos ambientales son delitos con una pluralidad de víctimas.

   Palabras claves: delitos medio ambiental, responsabilidad penal, Tribunal supremo italiano.



LA TUTELA PENAL EN ITALIA. LIMITACIONES LEGALES Y NECESIDADES MATERIALES


1. INTRODUZIONE; 2. LA DECISIONE QUADRO U.E. N.80/2003; 2.1. I reati previsti; 2.2. La responsabilità delle persone giuridiche; 2.3. Il sistema delle sanzioni; 3. SITUAZIONE CONCRETA IN ITALIADA; 3.1. Da Severo a Porto Marghera; 3.2. Il “nuovo” danno personale da reato; 3.3. Il caso di Porto Marghera; 3.4. Inquinamento e reati contro l’incolumità pubblica; 3.5. Il nesso di causalità; 4. LA SENTENZA DELLE S.U. PENALI N.30328/2002; 4.1. L’insussistenza di percorsi causali alternativi; 5. Problematiche e necessità materiali.

1. INTRODUZIONE

   Attualmente, la problematica della tutela penale dell’ambiente[1] vive, senza dubbio, un periodo particolarmente controverso. Ciò è dovuto anche alla circostanza che – quantomeno secondo chi scrive – le soluzioni offerte da parte della dottrina alla succitata problematica non sono forse del tutto in linea con quello che, oramai, costituisce il comune sentire delle popolazioni degli Stati europei in tema di ambiente. In taluni recenti contributi, infatti, o si giunge alla radicale soluzione dell’abbandono della tutela penale dell’ambiente[2], oppure ci si accontenta di una tutela affidata al (superato?) modello ingiunzionale[3], in una prospettiva esclusivamente antropocentrica[4], in cui il bene ambiente viene in considerazione solo in funzione strumentale rispetto alla tutela di altri beni[5], quali – ad. es. - la vita, l’incolumità individuale, la salute pubblica, oppure, addirittura, il patrimonio o il corretto funzionamento del mercato[6].
 
    Al contrario, i cittadini europei sembrano sempre più preoccupati dall’inesorabile (e nient’affatto lento) aggravarsi della crisi ambientale. E si aspettano un rafforzamento, e non certo un abbandono, della tutela penale dell’ambiente. Inoltre, in una prospettiva tendenzialmente geocentrica[7], l’ambiente inizia ad acquistare, appunto nel sentire comune, una sua autonoma dignità di bene, che per altro – già dalla fine degli anni settanta - gli era stata espressamente riconosciuta, in una delle più recenti Costituzioni democratiche europee[8].

    Questo mutamento dipende certamente dall’avvenuta maturazione della coscienza ambientale della popolazione, ma anche, e non meno, dal recente succedersi di eclatanti incidenti, che hanno dato luogo a veri e propri disastri ambientali, ed hanno dimostrato – qualora ancora ve ne fosse bisogno – che il problema ambientale, pure dal punto di vista della tutela penale dell’ambiente stesso, non può trovare che una soluzione sovranazionale[9]. Ma le resistenze provenienti da una certa parte del mondo dell’imprenditoria avverso l’introduzione di un sistema penale ambientale “effettivo, proporzionato e dissuasivo”, non sono di poco momento e, attualmente, non può ancora dirsi quanto saranno in grado di influire sulle scelte dei diversi Legislatori nazionali e di quello europeo.


2. LA DECISIONE QUADRO U.E. N.80/2003

    E’ opportuno ricordare che, sin dal 1998, il Consiglio d’Europa ha adottato una Convenzione per la tutela dell’ambiente attraverso il diritto penale[10] - di cui, dal 6 novembre 2000, è firmataria anche l’Italia - che fino ad oggi, però, data la insufficienza delle ratifiche ottenute[11], non è ancora entrata in vigore. Ma la stessa preoccupazione “per l’aumento dei reati contro l’ambiente e per le loro conseguenze, che sempre più frequentemente si estendono al di là delle frontiere degli Stati ove tali reati vengono commessi”, che già aveva portato all’adozione della succitata Convenzione, ha costituito, poi, il fondamento - su iniziativa del Regno di Danimarca del febbraio 2000 - della Decisione Quadro della U.E. n.80/2003 (in GUCE 5 febbraio 2003 n. L29) in materia di tutela penale dell’ambiente: il testo della quale, per altro, “richiama” in molti punti quello della Convenzione. Inoltre, “parallelamente” - nel marzo del 2001 -, la Commissione europea aveva presentato una proposta di direttiva relativa alla tutela penale dell’ambiente basata sull’art. 175, paragrafo 2, del Trattato che istituisce la Comunità europea. Ma il Consiglio, esaminando la proposta, era giunto alla conclusione che la stessa andasse ben oltre le competenze attribuite alla Comunità dal Trattato e che lo strumento legislativo più adeguato al raggiungimento dello scopo fosse quello, appunto, della Decisione Quadro[12].

2.1. I reati previsti


   L’art.2 (Reati intenzionali) della citata Decisione Quadro prevede ben sette ipotesi di reati intenzionali, mentre il successivo art.3 (Reati di negligenza) specifica che i reati di cui all’articolo precedente devono essere perseguiti anche “quando sono commessi per negligenza o quantomeno per negligenza grave”. Il primo dei reati previsti – alla lettera a) dell’art.2 della D.Q. - è un reato di condotta ed evento, in cui la prima consiste nello scarico, nell’emissione o nell’immissione, nell’aria, nel suolo o nelle acque, di sostanze o radiazioni ionizzanti, ed il secondo nella morte o nelle lesioni gravi alle persone. Ma a ben vedere la norma – così come formulata – appare superflua, in quanto non “riempie” alcuno dei tanti vuoti di tutela lamentati in materia. I delitti di omicidio, infatti (e lo stesso vale per quelli di lesioni), sono (e non solo in Italia) tipicamente a forma libera[13].

    Quindi, se pur – nella formulazione della norma - si volesse riferire il requisito dell’intenzionalità solo alla condotta, e non anche alla produzione dell’evento, comunque si finirebbe per descrivere una fattispecie che sarebbe “compresa”, in Italia, nel delitto di cui all’art. 575 c.p. o, al limite, in quello di cui all’art.589 c.p. Perché non si può negare che se Tizio intenzionalmente inquinasse, accettando il rischio di provocare la morte di un uomo – morte che poi effettivamente si verificasse, in conseguenza della succitata condotta inquinante –, sarebbe chiamato a rispondere di omicidio volontario. Mentre se l’evento morte (che poi si verificasse) non fosse da Tizio stesso previsto, oppure, se pur astrattamente previsto, non fosse ritenuto concretamente verificabile, questi dovrebbe essere punito per omicidio colposo. Allora, però, avrebbe avuto maggiore portata una norma che avesse sanzionato lo svolgimento intenzionale di condotte inquinanti, non che provocano, ma che anche solo possono provocare la morte (o le gravi lesioni): così come era previsto – è importante sottolinearlo - nel testo della Convenzione del 1998. Nella Decisione Quadro, invece, il passaggio dal modello classico del reato di condotta ed evento (di danno, come nella specie, o di pericolo), a quello del reato “a condotta pericolosa” rispetto alla produzione di un evento, avviene solo per le ipotesi previste alle lettere successive – dalla b) alla e) – del citato art.2. Ipotesi nelle quali le condotte inquinanti descritte sono caratterizzate pure dal requisito della illiceità. E cioè – ex art.1 della D.Q. – dal costituire di per sé una “violazione di una legge, di un regolamento amministrativo o di una decisione adottata da una autorità competente, intesi alla protezione dell’ambiente, in particolare ove essi attuino disposizioni vincolanti del diritto comunitario”. La Decisone Quadro, quindi, accoglie sostanzialmente il modello c.d. parzialmente sanzionatorio, di matrice tedesca, in cui – lo si ribadisce – si ritiene punibile il soggetto che ha cagionato l’evento di pericolo, o ha tenuto la condotta pericolosa, solo se la condotta stessa abbia violato pure la disciplina amministrativa.

    Il “passo in avanti” che si può apprezzare, almeno rispetto alla normativa italiana, nel testo della Decisione Quadro – “passo” che, ad ogni modo, non è infrequente nelle più recenti normative europee del settore - è quello di aver preso in considerazione non solo eventi (di danno) incentrati su beni tradizionali (vita, incolumità, salute pubblica, patrimonio), ma anche su nuovi beni quali l’aria, l’acqua, il suolo, la flora o la fauna. Sono ritenute costitutive di reato, infatti, le condotte inquinanti illecite che provochino o possano provocare il deterioramento durevole o sostanziale di tali elementi o beni. Inoltre, anche la scelta di prevedere reati a condotta pericolosa (ed illecita) rispetto alla verificazione di eventi di danno, appare certamente più “evoluta”, e condivisibile, rispetto alla riproposizione dello schema classico di reato di condotta ed evento, magari con la sola variante dell’evento di pericolo, al posto di quello di danno: specie in considerazione del “gigantismo” che finisce quasi sempre fatalmente per caratterizzare la descrizione degli eventi di pericolo.


2.2. La responsabilità delle persone giuridiche

        L’art.6 della Decisione Quadro prevede, poi, la responsabilità delle persone giuridiche[14] che

    – pur mancandone una qualificazione espressa - può pacificamente ritenersi di natura penale, quantomeno ratione loci. Ebbene, secondo un modello ben articolato, la responsabilità penale degli enti – e cioè, ex art.1. della D.Q., di “qualsiasi entità che sia tale in forza del diritto nazionale applicabile, ad eccezione degli Stati o di altre istituzioni pubbliche nell’esercizio dei pubblici poteri e delle organizzazioni internazionali pubbliche” – è suddivisa in una responsabilità “diretta”, per i fatti costitutivi dei reati di cui agli artt.2 e 3 della D.Q. commessi, a vantaggio delle persone giuridiche in questione[15], dai soggetti che detengano una posizione dominante in seno alla stesse, in quanto dotati di poteri di rappresentanza, decisione o controllo. Ed una responsabilità “indiretta”, o per omesso impedimento, nei casi in cui la carenza di sorveglianza o di controllo da parte di uno dei succitati soggetti dominanti (o apicali) abbia reso possibile la commissione, sempre a vantaggio dell’ente, dei menzionati reati, da parte di una persona soggetta all’autorità e al controllo dei soggetti apicali stessi. Attenzione, però: nelle ipotesi di responsabilità “diretta” - in cui i reati ambientali, cioè, sono stati commessi da persone “in posizione dominante” - non è contemplata per l’ente la possibilità di essere esentato da responsabilità   - come previsto invece, ex art.6 d.lgs. 231/01, dal modello italiano[16] – provando positivamente che il soggetto dominante (o apicale) abbia commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione - idonei a prevenire reati del tipo di quello effettivamente verificatosi - diligentemente predisposti, e resi operativi, dall’ente stesso.

   Secondo la Decisione Quadro, inoltre, non è possibile che si possa prescindere, per l’attribuzione della responsabilità alla persona giuridica, dall’individuazione della persona fisica autrice materiale dei reati presupposto. Possibilità prevista invece - ex art.8 D.lgs. 231/01 - dal modello italiano che, pure sotto questo punto di vista, appare senza dubbio “più avanti” di quanto proposto in sede Europea, specie in considerazione del tipo di organizzazione delle imprese contemporanee, che è tale da rendere spesso difficoltoso, se non impossibile, l’accertamento di una responsabilità individuale. Allora, però, non può che ulteriormente rimpiangersi la scelta operata – proprio in Italia – di eliminare dal novero dei reati presupposto per la responsabilità degli enti quelli ambientali e quelli del lavoro[17]. Perché se tali gruppi di reati, invece, non fossero stati “all’ultimo” eliminati nella formulazione del decreto legislativo delegato – bisogna ricordare, infatti, che la loro inclusione era espressamente prevista dalla legge delega - avrebbero forse potuto costituire l’occasione più propizia, per consentire che, vincendo l’inerzia iniziale, i pubblici ministeri prendessero in considerazione questo nuovo, potente ed “evoluto” strumento fornito loro dal Legislatore italiano. Strumento che è stato generalmente negletto, invece - almeno fino a questo momento -, proprio da coloro i quali erano chiamati ad adoperarlo.


2.3. Il sistema delle sanzioni

    Secondo l’indicazione della Decisione Quadro, le sanzioni[18] previste per le persone fisiche (art.5) e per quelle giuridiche (art.7) devono essere “effettive, proporzionate e dissuasive”. In particolare, poi, per quanto attiene alle persone fisiche, le pene privative della libertà devono essere contemplate “per lo meno nei casi più gravi”. Quindi, si può ritenere che, nella concezione del Legislatore europeo, le pene detentive dovrebbero essere previste principalmente, se non esclusivamente, per quei reati intenzionali che mettono a rischio la vita o, quantomeno, l’incolumità individuale. Questo dato, però, non parrebbe indicativo di una diminuzione della tutela, ma solo una scelta di campo – qui condivisa – a favore di sanzioni di tipo interdittivo che, per altro, rispetto alla commissione di reati economici, sembrano dotate di maggiore efficacia general e special preventiva. In particolare, le sanzioni interdittive indicate sono: il divieto di esercitare attività che richiedono particolari autorizzazioni o licenze ed il divieto di fondare, gestire o dirigere enti. Non è specificata, però, la durata di tali divieti che, conseguentemente, potrebbero pure essere previsti, nei casi più gravi, come perpetui.

    Ebbene, non può esservi dubbio che tali sanzioni si attaglino meglio della pena detentiva – e pure di quella pecuniaria – alla prevenzione, ed alla punizione, dei reati economici. Anzi, è la pena detentiva che, se riferita ad un certo tipo di crimini economici, pare quasi assumere un carattere “arcaico”[19]. Il limite, però, che ancora si riscontra (anche) nel modello proposto in sede europea è quello di concepire le sanzioni interdittive solo come accessorie, e non come principali. Ma, in difetto di autonomia, tali sanzioni seguirebbero necessariamente il destino di quelle, appunto, principali, detentive o pecuniarie che siano: circostanza che automaticamente le “candiderebbe” – e non solo in Italia – alla sospensione condizionale, con crollo conseguente dell’efficacia preventiva[20].

    Mentre, se tali sanzioni fossero considerate pene principali[21], potrebbero certamente essere dotate di minimi edittali elevati[22], tali da metterle al sicuro da rischi di sospensione. Né in tal caso potrebbe lamentarsi un eccesso di severità: perlomeno, cioè, se solo si considerasse quanto sia più fortemente restrittiva della libertà individuale una pena detentiva, rispetto ad una interdittiva. Un altro limite, poi, delle sanzioni interdittive, così come previste in sede europea, sarebbe quello di essere legate, nella loro accessorietà ed eventualità, ad un giudizio di tipo prognostico: dovrebbero essere comminate, cioè, solo quando i fatti compiuti dal condannato siano tali da indurre “a temere che possa esser nuovamente intrapresa un’iniziativa criminale analoga”. Ma una simile previsione, rendendo quantomeno difficoltosa l’applicazione di tali sanzioni, rischierebbe di svuotarle definitivamente della propria efficacia preventiva.

    Per le persone giuridiche, invece, oltre alle tradizionali sanzioni pecuniarie, di natura penale o amministrativa, è previsto un ventaglio veramente ampio. Praticamente, infatti, a parte la confisca, sono “suggerite” tutte le sanzioni che la scienza penalistica ha ideato per gli enti: dall’esclusione dal godimento di sovvenzioni pubbliche, al divieto temporaneo, o permanente, di svolgere una data attività industriale o commerciale, dall’assoggettamento alla sorveglianza giudiziaria, all’obbligo di dotarsi di compliance programs, fino al provvedimento definitivo dello scioglimento, la c.d. “pena di morte” dell’ente. Anche sul punto, però, si deve segnalare una mancanza della Decisione Quadro. Non è prevista, infatti, una norma che consenta – come l’art.17 del nostro D.Lgs. n.231/01 – di utilizzare le sanzioni in chiave premiale – nel senso che il premio dovrebbe consistere, chiaramente, nella mancata comminazione delle sanzioni stesse –, per incentivare gli enti ad una integrale, e tempestiva, riparazione delle conseguenze del reato. Norma che, invece, sarebbe stata particolarmente significativa, e d’indubbia utilità, proprio nel diritto penale ambientale, in cui si pone con prepotenza il problema della bonifica dei siti inquinati.


3. SITUAZIONE CONCRETA IN ITALIA

3.1. Da Seveso a Porto Marghera


   L’incidente verificatosi nell’ormai lontano luglio del 1976 a Seveso, presso lo stabilimento industriale della società Icmesa, è stato forse il primo caso in cui gli italiani si sono resi conto, sulla propria pelle, della pericolosità delle nuove tecnologie, possedute e gestite dagli imprenditori industriali, non sempre con le cautele dovute e proporzionate all’eccezionale capacità lesiva propria degli incidenti eventualmente verificabili. In particolare, accadde che, durante la pausa per il raffreddamento di un reattore, a causa della rottura di un disco di sicurezza, fuoriuscì, per ben venti minuti, un forte getto di vapore bianco, che formò una nube densa ed estesa, composta da una sostanza micidiale: la diossina. Tale nube, raggiunta una notevole altezza nel cielo, si diffuse nell’ambiente circostante, provocando danni alle colture ed agli allevamenti, nonché, soprattutto, lesioni alle persone. Nella specie fu contestato il disastro colposo (art.449 c.p.), aggravato – ai sensi dell’art.61 n.3 c.p. – per la previsione dell’evento. Né vi furono eccessive difficoltà, per la Pubblica accusa, nel dimostrare la sussistenza degli elementi tutti del reato contestato. Piuttosto, da un punto di vista giuridico, la sentenza della Cassazione penale[23], conclusiva della vicenda giudiziaria penale in oggetto, si distinse per l’attribuzione della responsabilità del fatto costitutivo di reato, non già al legale rappresentante della Icmesa, ma al direttore tecnico di tale società, che a sua volta però, non riuscì a far attribuire valore esclusivo della propria responsabilità, alla delega effettuata nei confronti dei responsabili dello stabilimento. Questo perché si era ingerito di fatto nella gestione dello stabilimento stesso, ed era – in quanto a competenza tecnica – certamente il soggetto più qualificato, il quale doveva aver agito nonostante la previsione dell’evento.

    Quindi, la Suprema Corte – nell’occasione – statuì l’importante principio della rilevanza – sempre che ne fossero accertati rigorosamente i  presupposti – della delega di funzioni in materia penale, non solo nellospecifico campo antinfortunistico, ma pure nel settore più ampio dei delitti contro l’incolumità pubblica, dove spesso entrano in gioco gli interessi diffusi, pure economici, di un’intera collettività. Al fine di far valere tale delega, però, è necessario che il delegante non si sia mai ingerito nell’attività del delegato, e che, comunque, non sia venuto a conoscenza dell’eventuale inosservanza delle norme, giuridiche e tecniche, di sicurezza. E’ chiaro, poi, che in applicazione del principio della esigibilità – che regola la responsabilità penale per colpa –, un dirigente, nonostante la delega, non potrà mai essere ritenuto estraneo ai fatti, nel caso in cui – come quello di specie – sia stato perfettamente a conoscenza di una particolare situazione di pericolo: la quale situazione, per altro, date le sue notevoli competenze tecniche in materia, non poteva non aver apprezzato in tutta la sua potenziale lesività.


3.3. Il caso di Porto Marghera

    In Italia, un esempio paradigmatico di sito inquinato – anche, ma non solo, dal cloruro di polivinile monomero ivi prodotto – è rappresentato sicuramente da Porto Marghera. Sito che, oramai, rappresenta altresì l’emblema dell’inadeguatezza dell’attuale normativa penale rispetto alla tutela dai fatti e dalle condotte di inquinamento ambientale. Come è noto, infatti, il Tribunale di Venezia[24] ha prosciolto da tutte le accuse gli amministratori e i dirigenti della Montedison e dell’Enichem che si erano succeduti – in un intervallo temporale di circa trent’anni (dal 1969 al 2000) – alla guida del complesso industriale petrolchimico, appunto, di Porto Marghera. E questo nonostante la molteplicità delle persone offese (ben 263) e la considerevole gravità delle accuse contestate. Per altro, in riferimento al caso di specie non si può neanche evocare la nota immagine della “montagna che partorisce il topolino”, perché pure i pochi reati di lesioni colpose ritenuti sussistenti (10 sindromi di Raynaud-acrosteolisi) sono stati “neutralizzati” dall’avvenuta estinzione per intervenuta prescrizione. Un completo nulla di fatto, quindi, per la pubblica accusa, che evidenzia chiaramente l’esigenza di una nuova disciplina del settore[25].


3.4. Inquinamento e reati contro l’incolumità pubblica


    Inadeguati alla tutela delle vittime e dell’ambiente dai fatti di inquinamento sono risultati, infatti, oltre ai reati di lesioni ed omicidio colposi, quelli contro l’incolumità pubblica e, in particolare, la contestata “strage colposa” (artt.449 e 422 c.p.), il disastro innominato colposo (artt.434 e 449 c.p.), la rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro (art. 437 co.2 c.p.), nonché l’avvelenamento colposo (artt.452 e 439 c.p.) - o, comunque, l’adulterazione o contraffazione colposa (artt.452 – 440 c.p.) - di acque o sostanze alimentari. Con tali delitti, quindi, non è riuscita l’operazione ermeneutica evolutiva[26] che la giurisprudenza ha portato a termine con successo, invece, con una contravvenzione contro l’incolumità pubblica - l’art.674 c.p. (getto pericoloso di cose) – che viene comunemente ritenuta applicabile ai fatti di inquinamento idrico ma, non altrettanto comunemente, a quelli di inquinamento elettromagnetico. Stante, infatti, l’astratta configurabilità dell’art.674 c.p. nel caso di emissioni di onde elettromagnetiche[27], resta da verificare in concreto l’attitudine di tali onde a recare offesa, o anche solo molestie, alle persone: attitudine sulla quale non v’è identità di vedute in giurisprudenza[28], pure quando risultino superati i limiti di intensità previsti dalla normativa speciale.

    Ad ogni modo – come accennato –, i delitti contro l’incolumità pubblica hanno dimostrato una minore “versatilità” della succitata contravvenzione. Ed invero non si può non convenire con quanto ritenuto dal Tribunale di Venezia che, in primis, ha escluso l’esistenza nel nostro ordinamento del delitto di strage colposa.Infatti, il fine di uccidere ha una posizione così centrale, e caratterizzante, nell’ambito del delitto di strage, che non ne rende possibile la “conversione” in delitto colposo statuita dall’art.449 c.p., per i disastri previsti dal Capo primo del Titolo VI del codice penale (appunto: Dei delitti contro l’incolumità pubblica), nel caso in cui – beninteso – siano commessi per colpa e non per dolo. Il linguaggio, quindi, resiste e “si vendica”: perché se – appunto nel linguaggio comune - il disastro può essere voluto o meno dal suo autore, non altrettanto può dirsi del fatto di strage, che si intende sempre come volontario, tanto che la stessa espressione “strage colposa” potrebbe pure ritenersi, senza esagerazione, una sorta di ossimoro. Altrettanto seccamente, poi, è stata ritenuta infondata l’accusa di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro (art.437 c.p.). A tal proposito,a parte i pur condivisibili rilievi operati dal Giudice del dibattimento sulla mancanza, nel caso di cui trattasi, dell’elemento soggettivo dell’ipotizzato reato (dolo) – ma si ricorda che di tale delitto esiste pure il “corrispondente” colposo (art.451 c.p.) – , ciò che in questa sede appare opportuno sottolineare è che l’ipotesi accusatoria è stata ritenuta infondata in quanto l’art. 437 c.p. – secondo la condivisibile interpretazione offerta dal Tribunale – è applicabile solo nel caso di violazione dolosa di specifiche disposizioni “che prescrivano precisi doveri di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro”. Mentre la pubblica accusa aveva contestato la violazione di un generico dovere di prevenzione di eventi lesivi o di danno[29] dei singoli lavoratori esposti alla produzione del cvm-pvc: violazione che, per altro, è stata ritenuta in fatto infondata (ma che, invece, secondo l’accusa, costituiva una delle cause dei contestati reati di lesioni e omicidio). In definitiva, si può affermare che la fattispecie incriminatrice ha retto: non si è prestata, cioè, all’operazione di “allargamento” tentata dal Pubblico Ministero.

    Relativa migliore fortuna ha avuto, invece, l’imputazione per disastro innominato colposo. Il Tribunale, infatti, se pur esclusivamente in relazione alle condotte degli imputati titolari di una posizione di garanzia tra il 1969 e 1973 – successivamente, infatti, v’era stata una drastica riduzione delle esposizioni –, ha ritenuto sussistente l’elemento oggettivo del contestato reato, ma ha escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo, in quanto all’epoca “non era noto, sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche, fondate su affidabili verifiche sperimentali, il rischio oncogeno sull’uomo e le lesioni epatiche indotte dal cvm non avevano manifestato segni patologici inequivoci”. Lo stesso Tribunale, quindi, ha valutato infondate le tesi difensive che asserivano l’incostituzionalità del c.d. disastro innominato - per violazione del principio di determinatezza di cui all’art. 25 co.2 Cost. – e la necessità che l’evento costitutivo del delitto stesso, dal quale deve derivare il pericolo per la pubblica incolumità, sia determinato da cause violente e contestuali “con una estrinsecazione di energia fisica in un processo concentrato nel tempo (come nel caso di incendio, inondazione, frana, valanga, naufragio, disastro aviatorio, ferroviario, crollo di costruzioni), così da far insorgere un pericolo concreto per la pubblica incolumità, e cioè per una serie indeterminata di persone”. Conseguentemente, l’assoluzione appare episodica e, per così dire, legata a motivi contingenti. Mentre resterebbe salva – almeno nella concezione del Tribunale – l’astratta applicabilità del disastro innominato (a seconda dei casi colposo o doloso) alle condotte di inquinamento dalle quali – beninteso – sia derivato un pericolo per l’incolumità pubblica.

    Ma è proprio così? Probabilmente no. Ed infatti le difesa avevano in parte colto nel segno eccependo l’indeterminatezza - e, quindi, l’incostituzionalità – del c.d. disastro innominato, in quanto di tale reato può anche darsi un’interpretazione incostituzionale, così come ha fatto il Giudice del dibattimento. Alla fine, cioè, delle due l’una: o si ritiene che l’espressione “altro disastro” sia in qualche modo caratterizzante, e limitativa, dei fatti e delle condotte che possono risultare tipiche rispetto al reato di disastro innominato; oppure, praticamente, si interpreta la norma come se prevedesse che chiunque commette un fatto diretto a cagionare un qualsiasi fatto è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità. Ma la seconda interpretazione – che poi, praticamente, è quella offerta dal Tribunale - è manifestamente incostituzionale per violazione, appunto, del principio di precisione. In definitiva, nel caso di Porto Marghera la giurisprudenza ha commesso lo stesso errore, rapportato al delitto di cui all’art.434 c.p., che la dottrina già contestava in relazione alla contravvenzione di cui all’art.734 c.p.. E’ chiaro, infatti, che l’espressione “in qualsiasi altro modo” – per altro molto più ampia di “altro disastro” – contenuta nella succitata contravvenzione non può essere interpretata in maniera omnicomprensiva, finendo così per ritenere tipici, ai sensi di tale articolo, anche condotte omissive o, comunque, condotte attive che siano assolutamente eterogenee rispetto alle attività di costruzione o demolizione espressamente previste dalla norma.

    In tal modo, infatti, si finisce per interpretare la contravvenzione in questione in modo violativo dell’art.25 co.2 Cost.. Mentre, proprio nel caso di cui trattasi, si imporrebbe un’interpretazione restrittiva della norma che prendesse in considerazione solo condotte omogenee a quelle, appunto di costruzione o demolizione, espressamente descritte nella fattispecie incriminatrice: lo svellimento di piante – ad es. –, l’esecuzione di scavi per materiale, la trasformazione agricola, ecc.[30]. Per altro, poi, si osservi che aderendo alla tesi opposta sostenuta dalla giurisprudenza, per cui tale reato sarebbe a forma libera, indifferentemente attiva o omissiva, si arriva ad una interpretatio abrogans delle condotte nominate (di costruzione o demolizione). Infatti al reato si attribuisce lo stesso identico ambito di operatività che avrebbe se tali condotte non fossero state espressamente previste. Allora, però, risulta evidente che se le condotte nominate hanno una funzione – e devono averla –, può essere solo una funzione limitativa della condotta innominata, che chiaramente può (e deve) essere diversa, ma non del tutto eterogenea, rispetto alle prime. Nello stesso senso, quindi, volendo interpretare l’art.434 c.p. alla luce dalla Carta costituzionale, per “altro disastro” deve intendersi – come giustamente eccepito dalle difese – un fatto in qualche modo omogeneo al crollo di una costruzione, ad un naufragio, ad una valanga, ecc.[31] Ma il Giudice del dibattimento non è stato dello stesso avviso, ed è arrivato alla conclusione che anche l’inquinamento di un sito, avvenuto magari in decenni di attività industriale, possa astrattamente integrare gli estremi dell’espressione “altro disastro” di cui al delitto di disastro innominato: interpretazione, quest’ultima, che proprio non si riesce a condividere.

    Del resto, non appaiono del tutto convincenti neppure i risultati ai quali il Tribunale è giunto nell’interpretazione dei delitti (colposi) di avvelenamento, oppure di adulterazione, di acque o sostanze alimentari (previsti, rispettivamente, dagli artt.439 e 452 c.p. il primo, e dagli artt.440 e 452 c.p. il secondo). Ed infatti, i delitti in questione non sono stati correttamente considerati entrambi di pericolo concreto: perché se il delitto di adulterazione è stato ritenuto – così come inequivocabilmente è – di pericolo concreto[32], quello di avvelenamento è stato definito invece, testualmente, di “pericolo reale”. Quindi, se pur giustamente si sostiene in motivazione che, per ritenere l’avvenuta integrazione del delitto di avvelenamento, non sarebbe sufficiente – come affermato, invece, dalla pubblica accusa – che le acque o gli alimenti avvelenati contengano sostanze tossiche in misura superiore alle soglie previste nella normativa speciale penale o extra penale, non si ritiene necessario, però, che sia accertata in concreto la pericolosità per la salute dell’uomo delle acque o degli alimenti presunti avvelenati: costituendo il c.d. pericolo reale una sorta di via di mezzo tra quello concreto e quello astratto. Questa nuova nozione di “pericolo reale” – che, in verità, non brilla in chiarezza – non deve confondersi però con quella, già da tempo formulata in dottrina, di pericolo astratto concreto - sull’autonomia concettuale della quale, per altro, non v’è unanimità di consensi[33] - anche perché solitamente è proprio l’art.440 c.p., e non l’art.439 c.p., ad essere considerato un esempio di reato di pericolo, appunto, astratto concreto, “in quanto la legge non indica, lasciandoli del tutto indeterminati ed incerti, sia i concreti beni giuridici, sia gli specifici soggetti titolari (cioè i futuri consumatori) di questi beni contro cui si dirige il fatto tipico vietato[34].

    Viceversa, sol perché nella fattispecie descrittiva del delitto di avvelenamento non è previsto espressamente il requisito del pericolo per la salute, non è possibile ritenere che per integrare gli estremi del delitto di adulterazione – in cui tale requisito è invece previsto – sia necessario un quid pluris rispetto a quanto necessario per il delitto di avvelenamento. Anzi, deve affermarsi esattamente il contrario. In quanto, perché vi sia avvelenamento, è necessario che le acque o gli alimenti, appunto avvelenati, abbiano assunto delle caratteristiche nocive assai più gravi, rispetto a quelle sufficienti perché possa ritenersi consumata la condotta di corruzione, alternativamente prevista come tipica nel delitto di cui all’art.440 c.p.: semanticamente, infatti, “corrompere è un quid minus di avvelenare[35]. Se, cioè, è pure possibile che un alimento corrotto o adulterato non sia, per questo, necessariamente pericoloso per la salute dell’uomo, lo stesso non può dirsi per un alimento avvelenato: che è per definizione pericoloso per la salute. Altrimenti non è avvelenato. Diversamente, poi, non potrebbe proprio spiegarsi perché, tanto nel minimo quanto nel massimo, il delitto di cui all’art.439 c.p. è punito con pene sensibilmente più elevate di quello di cui all’art.440 c.p. Ad ogni modo, e con riferimento alla specie, il Giudice del dibattimento non ha ritenuto che fosse sufficiente verificare se la concentrazione delle diossine, e delle altre sostanze tossiche indicate dall’accusa, nell’ittofauna (vongole) lagunare fosse superiore (o meno) ai valori soglia. Ma, piuttosto, ha inteso accertare se un eventuale consumatore dell’ittofauna stessa corresse (o meno) un pericolo per la propria salute, senza porsi però il problema – trattandosi di c.d. pericolo reale e non concreto – “di considerare di volta in volta, quali persone e quante persone siano in contatto della fonte materiale del pericolo”. Sul punto, comunque, il Tribunale – visti gli esiti della corposa istruttoria – ha dato risposta negativa, escludendo che il biota in oggetto potesse costituire un pericolo per la salute dell’uomo, pure nel caso di un suo ipotetico “forte consumatore”. Anche se – a onor del vero – lo stesso Tribunale, in riferimento all’aneddotico “piatto di spaghetti alle vongole” provenienti dai canali lagunari – di cui, come detto, aveva escluso la pericolosità per la salute – non ha saputo esimersi da un giudizio di “non consigliabilità”. Ma davvero nulla di più.


3.5. Il nesso di causalità

    Non si può non rilevare però che, probabilmente, il giudizio di assoluzione dai delitti di avvelenamento e di adulterazione sarebbe stato formulato ugualmente (magari “per non aver commesso il fatto”), pure se fosse stata provata la pericolosità per la salute dell’uomo del consumo del biota vivente sul sedimento dei canali dell’area industriale. Ed infatti, il Tribunale ha affermato che “l’assoluzione è coerente, inoltre, con l’evidenza probatoria che non permette di individuare nel catabolismo del Petrolchimico (quello dei tempi storici interessanti l’imputazione) la matrice della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale”. E siamo così arrivati al “cuore” del provvedimento, ad un tema, cioè, che ha interessato quasi tutti i capi di imputazione: il criterio di accertamento del nesso di causalità[36].

    A tal riguardo, la sentenza del Tribunale di Venezia costituisce una decisa “bocciatura” della c.d. causalità generale, o causalità per aumento del rischio[37] – intesa come idoneità della causa (attività industriale del Petrolchimico) a produrre certi tipi di evento (morti, lesioni, inquinamento dei canali) – che aveva costituito, invece, il fondamento delle ipotesi accusatorie. Il Tribunale, infatti, accoglie sostanzialmente il modello “classico” nomologico deduttivo, ma accetta – e questo, secondo quanto affermato in sentenza, dovrebbe consentire di affrontare la sfida della c.d. società del rischio – che le leggi utilizzabili in sede processuale penale siano, oltre a quelle universali, anche quelle statistiche: sempre che consentano di arrivare ad affermazioni di responsabilità quasi certe. L’assoluta certezza, per altro, sarebbe di per sé esclusa dal continuo mutare delle leggi scientifiche. E quindi dovrebbe interessare il filosofo della scienza, più che il Giudice penale.

    Per quanto riguarda, poi, la rilevanza da attribuire agli studi epidemiologici, la motivazione non sembra offrire segnali univoci: da un lato, cioè, i risultati di tali studi non vengono ritenuti sufficienti per l’affermazione della sussistenza di un nesso di causalità, dall’altro, però, si continua ad attribuirgli una certa rilevanza nel processo penale quando siano corroborati da altre fonti, magari in una sorta di “intreccio” con i risultati delle scienze sperimentali vere e proprie. Questa ambiguità, o contraddittorietà, della parte motiva è la chiave di lettura per l’affermata sussistenza di quei pochi reati di lesioni, per altro prescritti – di cui già s’è detto – e, più in generale, della ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra l’esposizione al cvm-pvc e di alcune patologie tumorali dei lavoratori più esposti: affermazione che si basa, in buona parte, su studi epidemiologici. Non bisogna dimenticare, infatti, che - in tali casi - l’assoluzione dalle imputazioni è stata dovuta – per usare le espressioni del Tribunale – ad una non coincidenza tra l’epoca della colpa e quella della causalità. In quanto, all’epoca in cui le esposizioni dei lavoratori al cvmpvc erano così elevate da causare – secondo la motivazione, e in base pure agli studi epidemiologici – gli eventi dannosi, non si conosceva ancora la pericolosità della sostanza in oggetto. Mentre, quando tale pericolosità sarebbe stata accertata, sarebbe pure stata, conseguentemente, diminuita l’esposizione dei lavoratori alle sostanze nocive. In definitiva, quindi, anche dalla “messe di assoluzioni” della sentenza di Porto Marghera, il paradigma causale non esce completamente indenne, ma si vede costretto a subire una certa torsione, poi “compensata” sul piano della colpa in modo, per altro, non del tutto convincente. Secondo chi scrive, infatti, sul piano della colpa non pare condivisibile quanto sostenuto dal Giudice del dibattimento, cioè che i soggetti imprenditoriali – quando si tratta della salute dell’uomo – possano ignorare quelli che il Giudice stesso ha definito “campanelli d’allarme” della comunità scientifica e – nel dubbio sulla cancerogenità (o meno) di un sostanza – possano andare avanti con gli stessi metodi di produzione, come se nulla fosse. Ma a prescindere dai rilievi sull’elemento psicologico, il dato incontestabile che emerge dal processo di Porto Marghera è quello relativo all’inadeguatezza dei reati di condotta ed evento ad affrontare le sfide della modernità.


4. LA SENTENZA DELLE S.U. PENALI N.30328/2002

    Com’è noto, però, la tematica dell’accertamento del nesso di causalità sta assumendo sempre maggiore importanza, non solo in riferimento ai reati ambientali, ma anche nei casi di colpa medica e di responsabilità da prodotto: tutti ambiti caratteristici della società contemporanea (c.d. società del rischio), in cui l’accertamento, appunto, del nesso di causalità, appare particolarmente controverso. Ed è proprio nel campo della responsabilità (penale) per colpa medica che è stata pronunciata l’ultima sentenza in argomento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite[38], nella quale si assumono posizioni in gran parte coincidenti con quelle espresse, qualche tempo prima, dal Tribunale di Venezia nel caso di Porto Marghera. Entrambe le sentenze, infatti, bocciano decisamente la c.d. causalità generale, o per aumento del rischio, ma, allo stesso tempo – se pur con motivazioni diverse -, sembrano voler “far rientrare dalla finestra quanto è stato cacciato dalla porta”, finendo per risultare inevitabilmente contraddittorie. Per quanto specificamente attiene alla sentenza delle S.U., prim’ancora di entrare nel merito dell’accennata contraddizione motivazionale, bisogna affrontare una diversa questione, che potrebbe apparire solo terminologica, ma che, in realtà, può avere notevoli riflessi di tipo pratico ed applicativo. Bisogna domandarsi, cioè, se sia possibile spiegare il particolare (caso singolo) mediante un procedimento logico di tipo induttivo. Secondo le S.U., infatti - così come già ritenuto in precedenza in altre sentenze della Suprema Corte[39] -, ciò sarebbe in alcuni casi possibile.

    Quindi, secondo quanto parrebbe affermato in sentenza, non solo mediante il procedimento deduttivo si sarebbe in grado, partendo dal generale (legge), di spiegare o prevedere il particolare (caso singolo), ma pure mediante quello induttivo. In tal senso, la differenza tra i due metodi o tipi di ragionamento, potrebbe sembrare solo di tipo quantitativo, e non qualitativo. Per cui la deduzione sarebbe caratterizzata dalla certezza, mentre all’induzione sarebbe propria la probabilità, ma entrambe opererebbero nello stesso modo e con gli stessi fini. Ma è condivisibile questo assunto? Secondo chi scrive no. L’induzione, infatti, è il procedimento diametralmente opposto alla deduzione. In quanto, tramite la deduzione, dalla verità generale si ottiene quella particolare, mentre, al contrario, tramite l’induzione, da più verità particolari si ottiene quella generale. E’ chiaramente corretto, poi, sostenere che l’induzione è sempre, per sua stessa natura, necessariamente probabilistica; mentre la deduzione, se applicata ad una legge universale, porta a risultati certi (ed in questo senso sono indubbiamente corrette le espressioni “certezza deduttiva” e “probabilità induttiva”). Ciò non toglie però che, anche quando il Giudice penale abbia a sua disposizione solo leggi probabilistiche, e non universali, il tipo di ragionamento che deve porre in essere, per spiegare un dato evento alla luce delle leggi scientifiche in gioco, è sempre di tipo deduttivo (dal generale al particolare), e non induttivo (dal particolare al generale)[40]. Ovviamente si tratta di una deduzione che, per la caratteristica propria della legge (probabilistica) alla quale è stata applicata, ha perso il suo carattere di certezza ed è divenuta solo probabile: non per questo, però, dev’essere chiamata induzione[41].

    Altrimenti si corre il serio rischio che nel Giudice penale – e nell’operatore del diritto in genere – possa sorgere l’idea errata che, nel caso in cui, appunto, si abbiano a disposizione solo leggi probabilistiche, l’interprete, per verificare la sussistenza del nesso di causalità, sia autorizzato a fare qualcosa di essenzialmente diverso (induzione) - e, per altro, non esattamente specificato -, rispetto a quello che è solito fare (deduzione) nell’eventualità in cui abbia a disposizione leggi universali.

4.1. L’insussistenza di percorsi causali alternativi

    Proprio tramite il ricorso all’induzione, poi, le S.U. arrivano a giustificare la possibilità - nell’ipotesi in cui sia stata esclusa la sussistenza dei c.d. percorsi causali alternativi - di accontentarsi di leggi probabilistiche “deboli”, che esprimono frequenze basse o medio basse, per l’accertamento del nesso causale.

    Ed è questo il punto cruciale della motivazione - che riprende e sviluppa le argomentazioni esposte per la prima volta in Italia in un caso di contagio del virus Hiv tramite rapporti sessuali non protetti[42] - con il quale non si può in alcun modo essere d’accordo. In quanto, pure tralasciando i risvolti pratico processuali del metodo indicato dalle S.U., è già da un punto di vista logico che si deve dichiarare l’impossibilità di aderire ad una simile impostazione. Per il semplice motivo che ottenere la prova della non sussistenza dei c.d. percorsi causali alternativi non è soltanto difficile[43], ma è addirittura impossibile. Si valuti, a tal proposito, la notevole differenza in cui si incorre nel voler rispettivamente provare che – ad es. – Tizio era a conoscenza di una determinata circostanza, oppure che, al contrario, Tizio non era a conoscenza della stessa determinata circostanza. Nel primo caso, infatti, basterà anche un solo testimone che affermi di aver riferito la circostanza in questione a Tizio, per aver raggiunto la prova della conoscenza. Mentre, pure l’affermazione di cento testimoni che sostengano di non aver riferito la circostanza a Tizio non può provare in alcun modo la mancata conoscenza, da parte di Tizio, della circostanza di cui trattasi. Tizio, infatti, può essere venuto a conoscenza della circostanza in questione in infiniti modi. E per provare la mancata conoscenza bisognerebbe poterli escludere tutti, e non solo alcuni. Per questo, la prova della mancata conoscenza di un fatto rappresenta una classica probatio diabolica, ed appare quantomeno “stravagante” che, sul punto, la giurisprudenza – contraddicendosi palesemente –, da un lato, ritenga giustamente che il querelante non sia tenuto a provare (e come potrebbe mai?) di non aver avuto conoscenza del fatto costitutivo di reato in epoca di tre mesi precedente alla presentazione della querela, e che sia piuttosto il querelato, se eccepisce l’intempestività della querela, a dover provare la “conoscenza precedente” [44]; dall’altro, sostenga invece che il terzo sequestratario istante la richiesta di riesame sia tenuto a provare positivamente (in che modo, poi, non è chiaro) di non aver avuto conoscenza dell’avvenuto sequestro prima di dieci giorni dalla presentazione dell’istanza stessa[45]. Due pesi e due misure. Allo stesso modo, però, un medesimo evento (costitutivo di reato) può essersi prodotto in infiniti modi, e per infinite cause, ed il Giudice penale non può che riuscire ad escludere dal novero delle infinite cause possibili di un dato evento solo alcune di esse (così come può ottenere la prova che Sempronio o Mevio non abbiano riferito la circostanza x a Tizio), ma questo non avrà provato affatto l’esclusione di tutti i possibili (infiniti) percorsi causali alternativi.

    Tornando al citato caso del supposto contagio da virus dell’Hiv da parte del marito sieropositivo nei confronti della moglie, con la quale aveva rapporti non protetti, a ben vedere, anche nel caso di specie, il Giudice del dibattimento avrà potuto escludere solo alcuni dei possibili percorsi causali alternativi: ma come escludere – ad es. – che la defunta avesse avuto un rapporto occasionale con uno sconosciuto (sieropositivo), mai confessato perfino alle sue più care confidenti; oppure, come escludere che, durante una passeggiata a piedi nudi sulla spiaggia, la defunta stessa si fosse ferita con una siringa infetta abbandonata sulla sabbia (e purtroppo se ne trovano), e non si fosse resa conto dell’oggetto con la quale s’era punta o, resasene conto, non avesse riferito l’episodio ad alcuno? La verità è che il Giudice (e non solo quello penale) deve valutare la prova di come si sono svolti i fatti per cui è causa, e non interessarsi affatto, invece, di come gli stessi non si sono svolti. E se per convincersi di questo l’esposto argomento logico non è risultato sufficiente, allora si ricorrerà a quello normativo. Perché, se l’art.299 del vecchio codice di rito consentiva al Giudice penale infinite strade cognitive, attualmente l’art.187 c.p. – con chiaro intento limitativo – statuisce che “sono oggetto di prova i fatti che riferiscono all’imputazione”. Ma il fatto che l’evento costitutivo del reato per cui si procede non sia stato prodotto da una causa diversa da quella indicata nel capo d’imputazione, non può essere in alcun modo ritenuto un fatto che riferisce all’imputazione. Anzi, a ben vedere, è per definizione un fatto che non riferisce all’imputazione, la prova del quale, conseguentemente, dovrebbe essere ritenuta inammissibile. Perché le prove a discarico (e tale dev’essere senza dubbio considerata la prova che l’evento si è prodotto per cause diverse da quelle descritte nel capo d’imputazione) sono ammissibili – e devono essere ricercate, ex art.358 c.p.p., pure dal pubblico ministero – solo in quanto siano appunto a discarico, mentre è veramente impossibile poter considerare che la mancanza di una, dieci o cento ipotetiche prove a discarico costituisca una prova a carico dell’imputato.


5. Problematiche e necessità materiali.

    Inoltre, per quanto attiene specificatamente al settore dei reati ambientali, non bisogna dimenticare che l’accertamento del nesso di causalità è reso vieppiù difficoltoso dalla cd. serialità delle condotte costitutive di reato. Infatti, le attività economico- industriali (potenzialmente) inquinanti hanno generalmente natura seriale e, il più delle volte, non sarebbe il singolo atto immissivo/emissivo, ma il reiterarsi dei singoli atti imissivi/emissivi, a cagionare l’evento (dannoso o pericoloso) costitutivo di reato.

    Tale circostanza, unitamente al fatto che solitamente i soggetti attivi inquinanti che svolgono la propria attività all’interno della stessa zona d’impatto sono molteplici, ha chiaramente un peso notevole in tema di causalità. Né le proposte per risolvere la succitata problematica sostituendo – come nell’art. 102 del Progetto Pagliaro – l’espressione “cagionare un evento” con quella “contribuire all’evento”[46] sembrano aver colto veramente nel segno. Conseguentemente, in campo ambientale si pone in modo prepotente la questione della scelta del modello di tutela: modello classico, sanzionatorio, parzialmente sanzionatario (come quello previsto nella citata Decisione Quadro) o qualcosa di ancora diverso? E, nel caso in cui il modello di tutela prescelto consentisse di prevedere fattispecie delittuose, sarebbe opportuno prendere in considerazione solo ipotesi dolose o pure colpose? Ma non finisce qui. Allo stesso modo, infatti, si pone in modo sempre più pressante – sempre in campo ambientale – il problema della delega di funzioni, che è poi intimamente connesso all’altro grande problema del diritto penale dell’economia contemporaneo: cioè quello della responsabilità da reato degli Enti. Ed ancora, il “punto dolente” della scelta di sanzioni veramente adatte e dissuasive, tanto per le persone fisiche, quanto per quelle giuridiche. Tutte questioni complesse, e tra loro connesse, alle quali bisognerebbe tentare di dare finalmente una risposta organica ed unitaria.



NOTAS

[1] In argomento, per quanto attiene ai profili generali, si rinvia a: BAJNO, Riccardo, “Problemi attuali del diritto penale ambientale”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 1988, 455ss; CATENACCI, Mauro, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura «sanzionatoria», CEDAM, Padova, 1996; GIUNTA, Fausto, “Il diritto penale dell’ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni?”, in Riv.it.dir.proc.pen., 1997, pp. 1097 e ss; INSOLERA, Gaetano, “Modello penalistico puro per la tutela dell’ambiente”, in Dir.pen.proc., 1997, pp. 737 e ss; MANNA, Adelmo, “Le tecniche penalistiche di tutela dell’ambiente”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 1997,  pp. 665 e ss.; ID, “Realtà e prospettive della tutela penale dell’ambiente in Italia”, ibidem, 1998,  pp. 851 e ss; PATRONO, Antonio, “Il diritto penale dell’ambiente. Rilievi critici e linee di politica criminale”, ibidem, 1996, pp. 1147ss; ID, “I reati in materia di ambiente, ibidem, 2000, pp. 669 e ss; PEDRAZZI, Cesare, “Profili penalistici di tutela dell’ambiente”, in Ind.Pen., 1991, pp. 617 e ss; PLANTAMURA, Vito, “Principi, modelli e forme per il diritto penale del terzo millennio”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 2002, pp. 1025 e ss; VERGINE, Francesco, “Valutazioni in tema di tutela dell’ambiente nel diritto penale”, ibidem, 1996, pp. 1193 e ss; ID, “Ambiente nel diritto penale (tutela dell’)”, in Dig.disc.pen., Utet, Torino, 1995, pp.  755 e ss.

[2] Cfr. STELLA,  Federico, Giustizia e modernità, Giuffrè, Milano, 2002, p. 101.

[3]
Cfr. AZZALI, Giampiero, La tutela penale dell’ambiente. Un’indagine di diritto comparato, CEDAM, Padova, 2001, p. 13.

[4]
Cfr. WHITE, Lynn, “The Historical Roots of Our Ecologic Crisis, in Science, 1967, vol. 155, pp. 1203 e ss.

[5] Cfr. GIUNTA, Fausto, “Ideologie punitive e tecniche di normazione nel diritto penale dell’ambiente”, in Riv.trim.dir.pen.econ,. 2002, pp. 845 e ss. In particolare, il chiaro Autore, pur aderendo all’impostazione prettamente antropocentrica, sostiene comunque che sia necessario il superamento del modello ingiunzionale. Ed auspica, anche in Italia, il ricorso al c.d. modello misto di tutela, in cui le valutazioni di pericolo concreto sono riferite a condotte già di per sé inosservanti della disciplina amministrativa.

[6]
Cfr. BAJNO, Riccardo, “Problemi attuali del diritto penale ambientale”, in Riv.trim.dir.pen.econ.,  op.cit., p. 447.

[7] Per l’accoglimento, in dottrina, di tale prospettiva, si rinvia a: ESER, Albin, “La tutela penale dell’ambiente in Germania”, in Ind.pen., 1989, pp. 245 e ss; MUSACCHIO, Vincenzo, “La tutela penale della natura: spunti per una discussione e prospettive evolutive di diritto penale e dell’ambiente”, in Riv.Pen., 1995, pp. 148 e ss; PLANTAMURA, Vito, “Principi, modelli e forme per il diritto penale del terzo millennio”, in Riv.trim.dir.pen.econ.,  op.cit., pp. 1030 e ss; TALAMO, Manlio, TRAMONTANO, Luigi, Diritto dell’ambiente, Napoli,  ESI, 1992, pp. 77 e ss.

[8]
Il riferimento è, chiaramente, alla Costituzione spagnola del 1977, che ha previsto espressamente la tutela dell’ambiente agli artt. 45 (in senso naturalistico), 46 (artificiale) e 47 (estetico). In argomento, si veda SALINERO ALONSO, Carmen, “Riflessioni sulla tutela penale dell’ambiente. In particolare i reati contro l’assetto del territorio nel codice penale spagnolo”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 1998, pp. 396 e ss. Non parrebbe condivisibile, invece, la tesi secondo la quale, anche in Italia, tramite il nuovo art.117 Cost. - che, in realtà, disciplina la legislazione esclusiva e concorrente, nelle diverse materie, di Stato e Regioni - si sarebbe operata la costituzionalizzazione del bene ambiente. Sull’ambiente nella riforma del Titolo V della Costituzione, si veda COCCO, Giovanni, “La Legislazione in tema di ambiente è ad una svolta?”, in Riv.Giur.Amb., 2002,  pp. 419 e ss.

[9]
Bisogna ammettere, però, che il Legislatore europeo non ha dato finora in materia ambientale buona prova di sé: “Continua, quindi, l’inquinamento da leggi, per cui non si fa a tempo a studiare (ed iniziare a applicare) un testo, che già arrivano numerose e sostanziose modifiche ed integrazioni, e si ricomincia tutto da capo…Peraltro, occorre anche dire che purtroppo si tratta di una scelta istituzionale perché sono proprio le leggi delega comunitarie a prevedere un decreto correttivo entro un anno, dando, quindi per scontato ed inevitabile che il primo testo sia, quanto meno, <<imperfetto>>”, così, testualmente, AMENDOLA Gianfranco, Le nuovi disposizioni contro l’inquinamento idrico,  Milano, Giuffrè, 2001, pp. 15 e ss.

[10] EIl testo della Convenzione è reperibile in internet http://conventions.coe.int/Traty/fr/CadreListe/Traites.html

[11]
La Convenzione in oggetto, infatti, è stata ratificata, finora, solo dall’Estonia, mentre per la sua entrata in vigore sono necessarie almeno tre ratifiche.

[12] E’ opportuno segnalare che la Commissione ha presentato ricorso avanti alla Corte di Giustizia contro la citata decisione quadro, per una questione di conflitto interistituzionale di competenze. Ma quale che sia lo strumento più idoneo per un intervento legislativo dell’Unione Europea in materia penale (Direttiva o Decisione Quadro), ciò che rileva in questa sede è che, in Europa, il futuro della tutela dell’ambiente sembra destinato ad avere comunque rilevanza penale. Cfr.: COMTE, Françoise,Diritto penale ambientale e competenze comunitarie”, in Riv.giur.amb., 2003, pp. 677 e ss; STORTONI, Luigi,  “L’ambiente: aspetti penali della legislazione europea”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 1998, pp. 883 e ss; VAGLIARDINI, Mariagrazia, “Diritto penale ambientale e diretta efficacia delle direttive comunitarie”, in Cass. pen., 1999, pp. 269 e ss. (nota a Cass. pen., Sez. III, 28 ottobre 1997).

[13] Si veda, come esempio paradigmatico, l’art.131 (Omicidio) del Codice penale portoghese, secondo il quale “Chiunque uccide un’altra persona è punito con la pena della reclusione da 8 a 16 anni.”. Cfr. Il codice penale portoghese, intr. di DE FIGUEIREDO DIAS, trad. it. di TORRE, CEDAM, Padova, 1997,  p. 161.

[14]
In argomento, si rinvia a: ALESSANDRI, Alberto, “Commento all’art.27, comma 1° Cost.”, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, Bologna, 1991, 150ss; BRICOLA, Franco, “Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione del fenomeno societario”, in Riv.it.dir.proc.pen., 1970, pp. 951 e ss; CASTELLANA, Agata Maria, “Diritto penale dell’Unione Europea e principio «societas delinquere non potest», in Riv.trim.dir.pen.econ., 1996, pp. 747 e ss; DE SIMONE, Giulio, “Il codice penale francese e la responsabilità penale delle persones morales, in Riv.it.dir.proc.pen., 1995, pp. 189 e ss; PALAZZO, Francesco, Associazioni illecite e illeciti delle associazioni, in Riv.it.dir.proc.pen., 1976, pp. 418 e ss; PALIERO, Carlo Enrico, “Problemi e prospettive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 1996, pp. 1173 e ss; STORTONI,  Luigi, “Profili penali delle società commerciali come imprenditori”, in Riv.it.dir.proc.pen., 1971, pp. 1163 e ss; ROMANO, Mario, “Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola)”, ibidem, 1995, 1031ss; STELLA,  Federico, “Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 1998, pp. 459 e ss; TIEDEMANN, Friedrich, “La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato”, in Riv.it.dir.proc.pen., 1995, pp. 615 e ss.

[15]
Siccome – dato il riferimento all’art.3 della D.Q. - nel novero dei reati presupposto sono compresi pure quelli colposi, risulta evidente che, quantomeno in tali casi, l’espressione “commessi a vantaggio” dev’essere riferita alla condotta colposa voluta, e non, chiaramente, agli effetti non voluti della condotta stessa.

[16] Sul modello italiano vi è ormai una vasta letteratura: AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, a cura di GARRUTI, Padova, Cedam, 2001; AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti – d.lg. 8 giugno 2001, n.231, Milano, Giuffrè, 2002; ALESSANDRI, Alberto, “Note penalistiche sulla nuova responsabilità delle persone giuridiche”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 2002, pp. 3 e ss; DE MAGLIE, Cristina, “La disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle associazioni. Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità”, in Dir.pen.proc., 2001,  pp. 1348 e ss; ID, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, Giuffrè, 2002 p. 25-37; DE VERO, Giancarlo, “Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato. Luci ed ombre nell’attuazione della legge delega, in Riv.it.dir.pen.proc., 2001, pp. 1126 e ss; MAIELLO, Vincenzo, “La natura (formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale) della responsabilità degli enti nel d.lgs. n.231/2001: una truffa delle etichette davvero innocua?”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 2002, p. 799; MANNA, Adelmo, “La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme”, ibidem, 2002, pp. 501 e ss; ID, “La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista”, in Cass.pen., 2003, pp. 1101 e ss; MUSCO,Vincenzo, “Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive”, in Diritto &Giustizia,, 2001, n.23, pp. 8 e ss; ID, “Gli amministratori disonesti producono sanzioni alle società” ibidem, 2002, n.15, pp. 9 e ss; PATRONO, Antonio, “Verso la soggettività penale di società ed enti, in Riv.trim.dir.pen.econ., 2002, pp.183 e ss; PELISSERO, Paolo,  Disposizioni sostanziali, in PELLISSERO, Paolo, -FIDELBO, Giorgio, “La nuova responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”, in Leg.pen., 2002, PP. 575 e ss; PIERGALLINI, Carlo, “Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 2002, pp. 571 e ss; PULITANÒ,  Domenico, “La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione,” in Riv.it.dir.proc.pen., 2002, pp. 415 e ss; ID, voce “Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche,” in Enc.dir., Agg., vol. VI, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 322,; ROMANO, Mario, “La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni: profili generali”, in Riv.soc., 2002, pp. 349 e ss.


[17] Il Legislatore, comunque, ha poi ampliato tre volte il novero dei reati presupposto. La prima, comprendendovi – ex art.6 d.l. n. 350/01 - i reati in materia di falsità in monete; la seconda, aggiungendovi – ex art.3 dlgs. n. 61/02 - i reati societari; la terza, inserendovi – ex art.5 l. n.228/03 – pure i delitti contro la tratta delle persone. Ma, a meno di non confondere i due diversi fenomeni delle associazioni illecite e degli illeciti delle associazioni, l’estensione al falso nummario o alla tratta di persone non appare particolarmente significativa. E l’estensione ai reati societari - che astrattamente avrebbe potuto avere maggiore rilievo - è stata in concreto sminuita: tanto, in generale, dalla sostanziale ineffettività dell’impianto penal societario; quanto, in particolare, dall’inspiegabile limitazione del tipo di sanzioni applicabili. Nel caso dei reati societari, infatti, risulta applicabile agli enti la sola sanzione pecuniaria. E pure con massimi edittali decisamente più bassi rispetto a quello – delle mille quote – previsto dall’art.10 del d.lgs. n. 231/01. Sul punto, si rinvia a DE FRANCESCO, Gianvittorio, “Disciplina penale societaria e responsabilità degli enti: le occasioni perdute dalla politica criminale”, in Dir.pen.proc., 2003, 8, pp. 929 e ss; nonché a PALIERO, Carlo Enrico, “La responsabilità delle persone giuridiche: profili generali e criteri di imputazione”, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, Milano,  Giuffrè. 2002, pp. 47 e ss.

[18] In argomento, si rinvia a: AA.VV, Una ricerca sulle fonti del diritto penale e del diritto sanzionatorio amministrativo, a cura di DOLCINI, PADOVANI E PALAZZO, Milano, Giuffrè, 1994; AA.VV., L’effettività della sanzione penale, Milano,  Giuffrè, 1998; ALESSANDRI, Alberto, Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, Giuffrè, 1984, pp. 11 e ss.; CONTENTO, Gaetano, “Osservazioni sui limiti naturali e funzionali della pena carceraria nella civiltà moderna, in ID, Scritti 1964-2000, a cura di SPAGNOLO, Bari, 2002; DOLCINI, Emilio, “Sui rapporti fra tecnica sanzionatoria penale e amministrativa”, in Riv.it.dir.proc.pen., 1987, pp. 777 e ss; EUSEBI, Luciano, “Brevi note sul rapporto fra anticipazione della tutela in materia economica, extrema ratio ed opzioni sanzionatorie”, in Riv.trim.dir.pen.econ., 1995, pp. 741 e ss; GRASSO, “Un codice di tipo europeo con sanzioni miti ma effettive, in Diritto &Giustizia, 2000, 35,  p. 9; MARINUCCI, Giorgio, “Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforme, in Riv.it.dir.proc.pen., 2000, pp. 160 e ss; MOCCIA, Sergio, “L’illusione repressiva – La politica criminale e giudiziaria nell’Italia degli anni novanta” in Dei delitti e delle pene, 1998, f.1,  pp. 91 e ss; MONTICELLI,  Luca, “Prospettive di riforma del sistema penale e nuove tipologie sanzionatorie,” in Ind. pen., 2000, pp. 1005 e ss; PADOVANI, Tullio, “La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni,” in Dei delitti e delle pene, 1984, pp. 114 e ss; PEPE,  Emilio, “Note sul principio di sussidiarietà: tra sanzione penale e sanzione amministrativa”, in Foro amm., 1994, 728ss; PIERGALLINI, Carlo, “Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale”, in Dir.pen.proc., 2001, pp. 1353 e ss.

[19]
Noi ci proponiamo di studiare se una pena, in particolare la pena carceraria, la pena detentiva, la pena restrittiva della libertà personale, oggi non abbia già fatto, almeno in parte, almeno entro certi limiti, il suo tempo, così come oggi noi consideriamo relitti del passato determinate sanzioni criminali che pure appartengono alla nostra storia, che pure sono state praticate, che hanno tipizzato i caratteri di una civiltà, in un certo periodo, nella vita dei popoli”, così CONTENTO, Gaetano, “Osservazioni sui limiti naturali e funzionali della pena carceraria nella civiltà moderna, in ID, Scritti 1964-2000, op. cit.,  p. 5.

[20]
E non parlo poi dell’abuso della condizionale; da che cosa è determinato questo abuso? Non è anche questo un riflesso psicologico del fatto che la pena carceraria, così come oggi è strutturata è pericolosa? Pensate ancora come potrebbe essere molto più efficace della reclusione, nei congrui casi, la pena della sospensione definitiva dell’esercizio della professione, immaginate quale possa essere il valore di questa pena rispetto alla possibilità della pena di reclusione con condizionale…che non fa più paura a nessuno!”, così CONTENTO, Gaetano, “Osservazioni sui limiti naturali e funzionali della pena carceraria nella civiltà moderna, in ID, Scritti 1964-2000, op. cit., p. 15.

[21] Sul punto, conformemente a quanto qui sostenuto, si è espresso GROSSO, “Su alcuni problemi generali di diritto penale”, in Riv.it.dir.proc.pen., 2003, p. 36.

[22]
Alternativamente, potrebbero prevedersi sanzioni interdittive non sospendibili condizionatamente.

[23] Cass. Pen., 23 maggio 1986, in Cass.pen., 1988, 1250.

[24] Trib. Ven., I sez. pen., 29 maggio 2002, in Riv.giur.amb., 2002, 119 ss, con note di CENTONZE – D’ALESSANDRO, La sentenza del Tribunale di Venezia sul petrolchimico di Porto Marghera, ibidem, pp. 156 e ss e PRATI,  Luca, “La responsabilità per l’inquinamento pregresso e la posizione di garanzia nella normativa sulla bonifica dei siti contaminati,”  ibidem,  pp. 159 e ss.

[25]
Sul tema della salubrità dei luoghi di lavoro, si veda STELLA, Federico, “La costruzione giuridica della scienza: sicurezza e salute negli ambienti di lavoro”, in Riv.it.dir.proc.pen., 2003, pp. 55 e ss. Galicia.

[26]
E’ chiaro, comunque, che la “via maestra” da percorrere rimane sempre quella della riforma legislativa, perché i fenomeni di supplenza giurisprudenziale, pure quando non sconfinino in vere e proprie interpretazioni analogiche vietate, come noto, in materia penale -, hanno sempre delle controindicazioni dovute, tra l’altro, alla circostanza che, ad una certa inevitabile elasticità della parte descrittiva di ogni norma incriminatrice, non fa riscontro una corrispondente elasticità della parte sanzionatoria. In argomento, si vedano le acute osservazioni di CONTENTO, Gaetano, “Interpretazione estensiva e analogia”, in ID, Scritti.., cit.,  pp. 267 e ss.

[27] Da un lato, infatti, la condotta emissiva può pacificamente rientrare in quella di <<getto>> (di cui, appunto, all’art.674 c.p.); dall’altro, invece, in virtù di quanto disposto dall’art.624 co.2 c.p., ogni energia avente valore economico dev’essere considerata «cosa» – si badi – “ai fini della legge penale”, e non, solo, ai fini del delitto di furto o, comunque, dei reati contro il patrimonio.

[28] L’emissione di onde elettromagnetiche di intensità superiore ai limiti fissati dalla vigente normativa non è riconducibile all’ipotesi di cui all’art.674 c.p., giacché…il superamento dei limiti in questione, essendo stati questi fissati solo in via meramente cautelare, non può essere riguardato come idoneo, di per sé, a produrre fastidi alle persone o pericoli per la loro salute”, Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 2002, pp. 255 e ss con nota di RAMACCI, Fabrizio, Inquinamento elettromagnetico: nuovi interventi della Cassazion”e. In senso contrario, si veda però Cass. Pen., Sez. I, 14 marzo 2002, in Ced Cass., rv.221653 8m), per cui “E’ configurabile il reato previsto dall’art.674 c.p. nelle emissioni di onde elettromagnetiche generate da ripetitori radiotelevisivi, purché siano superati i valori indicativi dell’intensità di campo fissati dalla normativa specifica vigente in materia, a nulla rilevando la concreta idoneità delle emissioni stesse a nuocere alla salute umana.”

[29]
E’ stata utilizzata, quindi, una nozione ampia di infortunio professionale, in cui rientrerebbe anche la c.d. malattia-infortunio, come ritenuto da parte della dottrina e della giurisprudenza. Cfr. FIANDACA, Giovanni,  MUSCO, Vincenzo, Diritto Penale, Parte Speciale, vol.I, Bologna, Zanichelli, 1988,  p. 387; nonché Cass. pen., 14 settembre 1990, in Dir.prat.lav., 1990,  p. 2703.

[30] Sull’interpretazione dell’art.734 c.p., si è aderito alla tesi espressa da CONTENTO, Gaetano,  “Interpretazione estensiva e analogia”, in ID, Scritti.., cit., 267ss.

[31]
Anzi, per quanto fin qui sostenuto a tale conclusione interpretativa – che quindi appare, a fortiori, obbligata – si sarebbe dovuti giungere perfino se, per ipotesi, il Legislatore, con una tecnica normativa meno felice, avesse utilizzato l’espressione “altro fatto” invece che “altro disastro”. L’unica altra possibilità, infatti, sarebbe stata quella della dichiarazione di incostituzionalità della norma.

[32]
In argomento, il contributo principale è forse quello di ANGIONI, Francesco, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, vol. I e vol. II, Sassari, 1981 e 1984. E’ doveroso, però, pure il riferimento a FIANDACA, Giovanni, “La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, pp. 441 e ss; nonché a GRASSO, “L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato”, in Riv.It.dir.proc.pen., 1986,  pp. 689 e ss.

[33] Cfr. FIANDACA, Giovanni, “Note sui reati di pericolo”, in Il Tommaso Natale, 1977, pp. 182 e ss.

[34]
Così, testualmente, CANESTRARI,  Stefano, “Reato di pericolo”, in Enc.giur.Treccani,1991, vol.XXVI, p. 4.

[35] Così ANTOLISEI, Francesco, Manuale di diritto penale, Parte speciale II, 13^ ed., aggiornamento a cura di CONTI, Milano,  Giuffrè, 2000, p. 34.

[36] In argomento, vi è vastissima – e ben nota – letteratura. Recentemente, però, un contributo di particolare pregio è stato apportato da DI GIOVINE, Ombretta, “Lo statuto epistemologico della causalità penale tra cause sufficienti e condizioni necessarie”, in Riv.it.dir.proc.pen., 2002,  pp. 634 e ss.

[37]
In tal senso, l’aumento del rischio non sarebbe valutato, con funzione limitativa della punibilità, come elemento ulteriore nell’ambito di una sussistenza del nesso causale già accertata, ma come vero e proprio metodo di accertamento del nesso causale - ritenuto, altrimenti, troppo “sfuggente”-, con la conseguenza di ottenere, per tale via, una (inaccettabile) estensione della sfera del punibile. A questo proposito, è stato acutamente osservato che, generalmente, il rischio di una tale inversione risulta più concreto nell’eventualità in cui trattasi di reati omissivi impropri, privi di una causalità reale, che non in quelli commissivi, con trasformazione conseguente dei reati omissivi impropri in reati di mera condotta, così FIANDACA, Giovanni, “Causalità (rapporto di)”, in Dig.disc.pen., Torino,  Utet, 1988, p. 128.

[38]
Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 10 luglio-11 settembre 2002, n. 30328, in Guida al dir., 2002, f.338, 62ss, con nota di MACCIONI, Per l’accertamento del nesso causale non bastano coefficienti di probabilità, ibidem, 71ss; nonché in Foro It., 2002, II, f.11, 601, con nota di DI GIOVINE, Ombretta, “La causalità omissiva in campo medico-chirurgico al vaglio delle sezioni unite”, ibidem, 608ss; in Dir.pen.proc., 2002, 1357ss, con nota di MARTINO, Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento, ibidem, 2003, pp. 50 e ss; in Riv.it.dir.proc.pen., 2002, pp 1133 e ss, con i relativi contributi di STELLA, Federico, “Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle sezioni unite della suprema corte di Cassazione”, ibidem, pp. 767 e ss, e ID, “Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione di eventi, ibidem, p. 1215. Non è superfluo ricordare che, in tale sentenza, le S.U. hanno ritenuto che “le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee interpretative sopra enunciate in tema di rapporto di causalità e trovano adeguata base giustificativa, in una motivazione, in fatto, immune da vizi logici …e i rilievi del ricorrente si palesano privi di fondamento”: quindi, se non fosse stato per la maturazione della prescrizione, la sentenza in oggetto sarebbe stata di conferma, e non di rinvio.

[39] Cfr. Cass. pen., 23 gennaio 2002, Orlando, in Foro it., 2002, II, 420ss, con osservazioni di FIANDACA.


[40] In senso opposto, però, si veda DI GIOVINE,  Ombretta, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino,  Utet, 2003, pp. 267 e ss.

[41] Già i difensori del modello nomologico-deduttivo della spiegazione si erano resi conto della difficoltà rappresentata dalla presenza, nelle scienze anche fisiche, di leggi non rigorosamente universali, ma esprimenti solamente delle “probabilità” più o meno elevate…Ne avevano quindi concluso che, applicando tali leggi, in presenza di date condizioni iniziali e al contorno, non era possibile dedurre logicamente con assoluta certezza il presentarsi di un evento E…Questo fatto veniva tradotto dicendo che la legge in questione, unitamente alle condizion iniziali e al contorno, consente di dedurre E soltanto con una certa probabilità…Ecco perché, soprattutto quando lo schema nomologico-deduttivo viene applicato alla ricerca delle cause dell’evento singolo, gli autori che trattano questo tema sono concordi nell’esigere che la probabilità frequentista espressa nella legge di copertura sia molto prossima ad 1, ossia alla certezza., così AGAZZI, Evandro, “La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli)”, in Riv.it.dir.proc.pen., 1999, pp. 400 e ss.

[42]
Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, in Foro it., 2000, II, 348, con nota di NICOSIA.

[43]
In via conclusiva, si deve ritenere che, nell’ambito di una impostazione corretta della causalità, sull’accusa incombe l’onere di provare le catene causali o la concretizzazione della legge di copertura. Solo se questa prova riesce si potrà dire che la causalità individuale è dimostrata, e dimostrata senza bisogno di prove relative alla esclusione dell’intervento di altre, possibili, cause. Se la prova non riesce, sarà inutile che l’accusa si avventuri sul terreno della pluralità delle cause, perché la causalità di un comportamento individuale non può essere desunta solo dalla prova, tra l’altro assai difficile, che non è intervenuta qualche altra possibile causa.”, così, testualmente, STELLA, Federico, ID, “Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione di eventi, Riv.It.Dir.Proc.Pen.  op. cit.,  p. 1238.

[44] plurimis: Cass. pen., Sez.V, 6 giugno 1996, n.7346, in Giur.it., 1997, II, 666, con nota di TIRABASSI.

[45]
Ex multis: Cass. pen., Sez. I, 10 agosto 1998, n.3330, rv.211299.
[46] In dottrina, però, la soluzione indicata è stata accolta da CATENACCI, Mauro, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura «sanzionatoria», op. cit.,  pp. 274 e ss., e pp. 300 e ss.